parole-favole

Una delle cose più difficili quando si scrive un romanzo storico e la ricerca di un equilibri tra lingua moderna e patina antica.

Manzoni il problema lo risolse facendo parlare un fiorentino ottocentesco a due popolani lombardi del ‘600. Ma se non sei Manzoni, se non stai creando la nuova lingua della nazione, ma sei solo una tizia che scrive e pure in terza persona ristretta? L’unica soluzione è andare alla fonte e, per fortuna, ambientando il romanzo nel primo ‘900, di fonti ne ho trovate ben due.

Quindi domenica , sono andata a trovare i miei nonni e li ho ammorbati finché non mi hanno raccontato un bel po’ di cose, tra  detti, proverbi e aneddoti vari.

Stamattina, riascoltando le registrazioni, mi è venuto un dubbio: come si traduce soio? In italiano è la contrazione di che ne so, io, fusa in una parola sola, ma non proprio. Che ne so sottintende un po’ che me ne importa, che me lo chiedi a fare, soio, no. Soio è solo non lo so, ma anche vorrei saperlo, ma è impossibile e ha in sè il dispiacere per non essere in grado di rispondere. Tutto questo groviglio di emozioni e concetti è fuso in una sola parola, come le parole originali della frase. Quindi come lo traduco? E come traduco abbucaltato, che non è solo messo in disordine, ma quasi una parola che richiama un dramma morale per il caos che l’azione ha portato? E gli sproloqui di mio nonno che, da buon toscano, usa la bestemmia come intercalare per segnalare punti particolarmente importanti? Come faccio?

L’unica risposta che mi viene in mente è «Soio

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